Il Riccetto tacque per un po’, guardando il cugino che camminava davanti a lui a testa bassa, poi decise d’essersi divertito abbastanza e fece: “Annamo dàje, che nun è niente! Ariconsolate, a cuggì, e vattene a casa, ch’è ora me pare…” Alduccio lo guardò, insospettito, ma pure con un malcelato filo di speranza nello sguardo. “Come sarebbe a ddì nun è niente”, chiese. “Nun è niente, nun è niente, dàje” fece il Riccetto, “apposta sto a scherzà”.

Pasolini, Ragazzi di vita

La vergogna fa parte delle cosiddette emozioni sociali, insieme alla gelosia, all’invidia e al senso di colpa, che si manifestano intorno ai due anni di vita (a differenza delle emozioni primarie – gioia, rabbia, stupore, disgusto, tristezza, noia – che compaiono sin dalla nascita), momento in cui si inizia a riconoscere la presenza dell’Altro. 

La vergogna è quell’emozione che sorge quando si teme la perdita dell’approvazione e dell’accettazione da parte degli altri.

Origine della vergogna

Certo, la vergogna si prova in situazioni socialmente imbarazzanti: quando si sbaglia qualcosa e si teme il giudizio degli altri, o quando ci si espone (con una prestazione o con una parte del proprio corpo) e si teme di essere derisi. Tuttavia ci sono alcune persone che tendono a vergognarsi più di altre. Anzitutto questo dipende dal contesto e da quanto è importante per noi il giudizio delle persone che appartengono a quel contesto: per esempio un bambino potrebbe vergognarsi per aver preso un brutto voto a scuola e un altro no, come anche un bambino potrebbe vergognarsi per aver preso un brutto voto solo in matematica ma non in italiano, perché il giudizio della maestra di italiano è per lui meno importante.

C’è da dire però che generalmente, le persone che provano più frequentemente vergogna, sono quelle che da bambini hanno ricevuto un’educazione in cui era frequente che ricevessero umiliazioni o giudizi negativi riferiti alla loro persona (per esempio: “Sei un incapace”, “Sei stupido”, “Se fai così non ti voglio più bene”) in seguito a degli errori commessi.

Forte infatti in chi prova vergogna è la percezione di indegnità e di non amabilità.

Pensieri e comportamenti della vergogna

Tutti ci sentiamo soddisfatti dopo aver fatto un buon lavoro o dopo aver ricevuto un complimento, ed è proprio questo desiderio di appagamento e di approvazione che ci motiva all’azione e che influisce sugli obiettivi che ci poniamo; abbiamo dunque un’idea di come vorremmo essere e di come le cose andrebbero fatte: si tratta del sé ideale.

C’è però anche un sé reale, ovvero come le cose effettivamente vanno. Il sé reale potrebbe coincidere col sé ideale, e in questo caso ci sentiamo soddisfatti e contenti di noi stessi, oppure potrebbe discostarsi dal sé ideale, quando per esempio ci poniamo obiettivi eccessivamente elevati rispetto alle nostre capacità e competenze oppure quando interviene un imprevisto esterno che impedisce che le cose vadano come noi vorremmo; in quest’ultimo caso ci sentiamo delusi e frustrati.

Dunque la vergogna entra in scena quando il sé reale si discosta troppo dal sé ideale: questo comporta spesso timore di giudizio negativo da parte degli altri e che si formuli un giudizio negativo anche nei confronti di se stessi.

Quando il sé reale si discosta dal sé ideale, la persona prova vergogna per essere diversa da come vorrebbe o dovrebbe essere.

Di qui è facile che partano una serie di giudizi negativi rivolti a se stessi, che ruotano intorno al sentirsi incapaci, indegni, non meritevoli di stima, e alla propria vita, ritenuta misera e insoddisfacente.

La persona può a questo punto ritirarsi ed evitare ogni situazione sociale (cosa che generalmente fa chi soffre di fobia sociale), oppure costruire un’immagine di sé che non corrisponde a quella reale, generando forti stati di ansia.

A cosa serve la vergogna?

Le emozioni costituiscono un bagaglio che madre natura ci dona e pertanto, per quanto talvolta possano essere spiacevoli, hanno anche una loro utilità: sembra incredibile, ma questo vale anche per la vergogna. Secondo Battacchi (2002) la vergogna, attraverso i suoi specifici correlati fisici (arrossire, abbassare lo sguardo, incurvarsi o cercare di nascondersi), costituisce un vero e proprio atto di sottomissione: si comunica agli altri di non voler competere, di non volersi esporre, proteggendosi da ulteriori “attacchi”. Questo generalmente serve a fare in modo che l’altro non infierisca ulteriormente con aggressività e serve implicitamente a comunicare che ci adeguiamo ai valori del gruppo e a chiedere che si venga nuovamente inclusi e accettati. A quanti è successo, mentre si prendeva in giro qualcuno, di desistere o addirittura di sentirsi dispiaciuti davanti alla manifesta vergogna del malcapitato? Persino quando siamo molto arrabbiati per un torto subito, immediatamente il livello di aggressività si abbassa di fronte all’evidente mortificazione di chi ci ha feriti.

Inoltre secondo Turnaturi (2012) si può fare buon uso della vergogna: può essere il punto di partenza per cercare un compromesso con se stessi, ridefinendo i propri obiettivi e facendo in modo che risultino più in sintonia con la propria vera natura, sentendosi anche più liberi ed emotivamente più distanti da ciò che sentiamo di dover essere, che è ciò che ci è sempre stato richiesto o che ci siamo sempre imposti.

Battacchi, M.W. (2002). Vergogna e senso di colpa. In psicologia e nella letteratura. Milano: Raffaello Cortina.

Turnaturi, G. (2012). Metamorfosi di un’emozione. Milano: Feltrinelli.

Articolo scritto dalla dr.ssa Annarita Scarola, Psicologa e Psicoterapeuta

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