“Hikikimori” è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte” e viene utilizzato in gergo per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria abitazione, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno, talvolta nemmeno con i propri genitori.

È un fenomeno che riguarda soprattutto i giovani dai 14 ai 30 anni, principalmente maschi (tra il 70% e il 90%), anche se il numero delle ragazze potrebbe essere sottostimato.

Le indagini ufficiali condotte finora dal governo giapponese hanno identificato oltre un milione di casi, con una grandissima incidenza anche nella fascia di popolazione over40. Questo perché, sebbene l’hikikomori insorga principalmente durante l’adolescenza, esso tende a cronicizzarsi con molta facilità e può dunque durare potenzialmente tutta la vita.

Anche in Italia l’attenzione nei confronti del fenomeno sta aumentando. L’hikikomori, infatti, sembra non essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, come si riteneva all’inizio, ma un disagio adattivo sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo. In Italia non ci sono ancora dati ufficiali, ma riteniamo verosimile una stima di almeno 100 mila casi.

Le cause possono essere diverse:

  • caratteriali: gli hikikomori sono ragazzi spesso intelligenti, ma anche particolarmente sensibili e inibiti socialmente. Questo temperamento contribuisce alla loro difficoltà nell’instaurare relazioni soddisfacenti e durature, così come nell’affrontare con efficacia le inevitabili difficoltà e delusioni che la vita riserva;
  • familiari: l’assenza emotiva del padre e l’eccessivo attaccamento alla madre sono indicate come possibili concause, soprattutto nell’esperienza giapponese. I genitori faticano a relazionarsi con il figlio, il quale spesso rifiuta qualsiasi tipo di aiuto;
  • scolastiche: il rifiuto della scuola è uno dei primi campanelli d’allarme dell’hikikomori. L’ambiente scolastico viene vissuto in modo particolarmente negativo. Molte volte dietro l’isolamento si nasconde una storia di bullismo;
  • sociali: gli hikikomori sviluppano una visione molto negativa della società e soffrono particolarmente le pressioni di realizzazione sociale, dalle quali cercano in tutti i modi di fuggire.

Tutto questo porta a una crescente difficoltà e demotivazione del ragazzo nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio rifiuto della stessa.

Si tratta di una insidiosa discesa dentro un imbuto nel quale l’individuo si rifugia volontariamente e sempre più in profondità, diventando di fatto irreversibilmente incapace, nei casi più gravi, di affrontare incombenze esterne molto semplici. Ciò che distingue l’hikikomori da altri fenomeni (come, ad es. quello dei NEET) è l’allontanamento progressivo e soprattutto doloroso dalla società in genere.

Avviene un graduale abbandono degli amici e delle relazioni sociali, alle quali vengono preferite attività solitarie o di relazioni online invertendo spesso il ritmo sonno-veglia. Di fatto tali soggetti stemperano il dolore derivante dal ritiro sociale dedicandosi ad attività quali lettura, ascolto o produzione di musica, o partecipazione a videogiochi e chat in compagnia di amici virtuali residenti in luoghi remoti. Uno dei primi campanelli d’allarme è l’abbandono scolastico.

Anche la dipendenza da internet viene spesso indicata come una delle principali cause dietro all’esplosione del fenomeno, ma non è così: essa rappresenta una possibile conseguenza dell’isolamento, non una causa.   

Attualmente la sindrome di hikikomori non rientra in nessuna categoria del DSM-5  (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione) e dell’ICD-10 (International Classification of Diseases; Organizzazione Mondiale della Sanità, 1992), per cui non è possibile farne diagnosi.

I sostenitori di questa posizione considerano la sindrome di hikikomori come uno stile di personalità e una scelta di vita che va accettata finché questa non porta ad un pericolo per la salute della persona o degli altri. Nella società odierna, soprattutto in quella Giapponese, particolarmente conformista e tradizionalista, esiste effettivamente la tendenza ad etichettare come “malati” gli individui e le minoranze che non rientrano nella norma, sia che si consideri una dimensione fisica, sociale, psicologica o sessuale; la cura da questa deviazione prevede di conseguenza un riallineamento con quello che è definito “normale”. I sostenitori di questa posizione ritengono il fenomeno dell’hikikomori un esempio della diversità che caratterizza popolazione giovanile e si rifiutano di considerarlo anormale (Borovoy, 2008; Can & Lo, 2014).

QUANDO E’ NECESSARIO INTERVENIRE?

Nella maggior parte dei casi, la richiesta non proviene direttamente dal giovane hikikomori; la sua scelta è quella di rimanere dentro la propria stanza, lontano dalle dinamiche della società che lo mettono in difficoltà o che non apprezza.

Sono i genitori, allarmati dal comportamento del figlio, a sentire il bisogno di essere aiutati: dopo numerosi tentativi non riusciti di fargli riprendere la scuola o farlo uscire dalla stanza, questi possono prendere contatti con un professionista sanitario (Medico di Medicina Generale, Servizio Sanitario Nazionale, psicologi e psicoterapeuti, ecc…).

In questi casi è necessario fare attenzione: la richiesta proviene da persone (committenti) diverse da chi effettivamente potrà beneficiare dell’intervento (destinatario). Per poter decidere se intervenire o meno, diventa fondamentale un’accurata valutazione della singola situazione, considerando contemporaneamente le volontà della persona autoreclusa e i rischi della sua condotta; in alcuni casi si può optare per un intervento (a maggior ragione se il figlio è minorenne) anche senza il consenso del destinatario (malattie egosintoniche che portano gravi rischi per la salute e il benessere della persona come, ad esempio, l’anoressia nervosa).

QUALI TIPOLOGIE DI INTERVENTO SONO DISPONIBILI?

Nel caso si ritenga necessario intervenire, per stabilire che tipo di aiuto poter fornire ai giovani che versano in questa condizione, ritorna utile la distinzione tra hikikomori primario e secondario. Con hikikomori primario ci si riferisce a quelle persone che non presentano altri disturbi psicologici o patologie psichiatriche che spieghino l’auto-reclusione; con hikikomori secondario vengono identificati coloro che sono affetti anche da un’altra patologia (es. depressione, ansia, schizofrenia).

Se dopo un’attenta valutazione clinica viene diagnosticato un disturbo psicologico rilevante come quelli sopra elencati, potrebbe essere opportuno fornire un trattamento combinato, sia psicoterapeutico che farmacologico, valutando l’ospedalizzazione solo nei casi più estremi.

Nei casi in cui non è presente invece nessuna altra condizione rilevante dal punto di vista clinico, possono rivelarsi utili colloqui psicologici e consulenze a distanza, visite domiciliari con interventi brevi di psicoterapia e successivamente terapia di gruppo o familiare in un contesto ambulatoriale.

L’obiettivo comune a tutti gli interventi rimane in ogni caso quello di interrompere la situazione di isolamento fisico e sociale, portando l’hikikomori ad uscire dal proprio ambiente “sicuro” e spingendolo ad assumere un ruolo attivo nella società (ad esempio, mediante un ritorno nell’ambiente scolastico o lavorativo). Per raggiungere questo scopo sono disponibili interventi psicologici, farmacologici e di natura psicosociale.

INTERVENTO PSICOLOGICO PER L’HIKIKOMORI

Solitamente la prima richiesta d’aiuto proviene dai genitori, preoccupati per la situazione di loro figlio; il professionista contattato dovrà fornir loro consulenze mirate ad accogliere le preoccupazioni e a fornire indicazioni rispetto a quali comportamenti mettere in atto e quali evitare.

In un secondo momento, nel caso in cui sia riuscito l’aggancio con il figlio e quest’ultimo abbia dato la propria disponibilità, i genitori verranno coinvolti nella terapia vera e propriadestinando all’intero nucleo familiare incontri specifici. Un lavoro sul contesto, sulla famiglia e sulle relazioni in generale, oltre ad un percorso di psicoterapia individuale, risulta fondamentale (Ranieri, 2016).

Possiamo quindi distinguere due piani di intervento, uno familiare ed uno individuale.

L’intervento individuale può essere inizialmente effettuato ricorrendo alla tecnologia, attraverso colloqui psicologici. In alcuni casi sarà possibile recarsi sin da subito a casa del giovane ed iniziare una terapia a domicilio.

In questa prima fase l’intervento sarà principalmente motivazionale: aiutare la persona a ritrovare la propria dimensione all’interno della società farà sì che questa formuli obiettivi che inevitabilmente la costringeranno ad uscire dalla propria stanza. La mancanza di obiettivi e la tendenza ad evitare le situazioni sociali diminuiscono di fatto la possibilità che la persona possa ottenere piccole soddisfazioni (rinforzi), contribuendo così a mantenere l’umore depresso.

La psicoterapia cognitiva e comportamentale permette di focalizzare l’intervento sia sulla componente cognitiva (traumi infantili, bassa autostima, credenze irrealistiche ed errori di ragionamento) che su quella comportamentale (strategie di coping inadeguate, evitamento delle situazioni temute, ecc…). Questo approccio prevede infatti esercizi di esposizione alle situazioni sociali, con grado di difficoltà via via sempre maggiore (partendo da una passeggiata attorno a casa per arrivare a vere e proprie interazioni con altre persone), e una ristrutturazione cognitiva dei pensieri che bloccano la persona.

Quando l’autostima e la motivazione del giovane saranno sufficienti, il terapeuta può valutare l’inserimento della persona in un piccolo gruppo di pari, un contesto protetto dove stimolare le interazioni reciproche e permettergli di mettere in atto quanto appreso nella terapia individuale.

INTERVENTO FARMACOLOGICO PER L’HIKIKOMORI

Il trattamento farmacologico (antidepressivi) viene accostato alla psicoterapia solo nei casi in cui viene rilevata sintomatologia appartenente ad alcuni disturbi psicologici, come ad esempio disturbo ossessivo, disturbi dell’umore o disturbi d’ansia (hikikomiri secondario).

INTERVENTO CHE MIRA ALLA SOCIALIZZAZIONE

Coloro che invece non presentano disturbi psicologici (hikikomiri primario) possono beneficiare di interventi di natura psicosociale, che fanno della socializzazione strumento e obiettivo. Questi programmi mirano ad accrescere le competenze psicologiche ed emotive degli hikikomori invece di etichettarli come “malati”; tra questi possiamo elencare training per le abilità sociali (Borovoy, 2008; Teo, 2010), training per la gestione emotiva (Hattori, 2006) e training per le abilità interpersonali (Wong, 2009).

CONCLUSIONI

Ad oggi, nonostante siano stati condotti numerosi interventi terapeutici, non sono state raccolte sufficienti evidenze scientifiche per stabilire quale sia la migliore cura o terapia per la sindrome di hikikomori. L’indicazione rimane dunque quella di rivolgersi ad un professionista della salute mentale affinché predisponga uno studio accurato della singola situazione, in modo da definire di volta in volta il percorso terapeutico migliore. puoi se vuoi approfondire l’argomento in un video sulla tematica sul nostro canale YouTube: clicca qui

articolo scritto dalla dott.ssa Elisa Bezze psicologa e psicoterapeuta riceve nella sede di Saronno del centro interapia è possibile chiedere una consulenza attraverso la nostra pagina dei contatti

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