“Quando mi fanno un’osservazione, mi sale un groppo in gola, non riesco nemmeno più a pensare e devo andare in bagno a fare il mio piantino” (P.)

“Anche se non mi sta bene, evito di dire la mia, sto zitt* così non litighiamo … poi ci penso e ci ripenso finché non faccio la pentola a pressione e sbotto” (D.)

Se da una parte vi sono persone che non vedono l’ora di poter asserire la propria opinione, per quanto in modo più o meno costruttivo, dall’altra si trova chi, non appena percepisce un certo livello di tensione, sceglie il silenzio, lascia correre o si defila il prima possibile.

Avere timore dei conflitti porta con sé il non riuscire ad esprimere il proprio parere, nonostante la si pensi diversamente dal proprio interlocutore, tenendosi tutto dentro, accumulando disagio, frustrazione, stando male fino al punto di scoppiare o di accusare il colpo a livello somatico.

Perché si ha paura del conflitto?

L’aver paura, di per sé, svolge una fondamentale funzione evolutiva poiché permette di sopravvivere identificando i rischi per sé e per gli altri e trovando il modo per reagirvi al meglio. In un’epoca moderna nel quale non ci si trova più di fronte a predatori che mettono a rischio la nostra vita, molte minacce non sono più strettamente fisiche, ma principalmente relazionali e sociali, legate all’idea, reale o immaginata, di poter rimanere da soli o senza sostegno. Nel momento in cui bloccano la possibilità di crescita e sviluppo, imprigionando in pensieri e sensazioni terrifiche, però, tali paure divengono patologiche e non più funzionali, poiché portano a mettere in atto comportamenti disadattivi e distruttivi.

La paura del conflitto risulta essere molto diffusa e si caratterizza per pensieri e dinamiche collegate al non dire o non fare qualcosa per evitare che altri possano arrabbiarsi o risentirsi, il non sapere come esprimere il proprio parere o l’effetto che azioni altrui hanno sul sé, finendo poi per non dire niente, ma accumulando comunque frustrazione e, in quello che potrebbe sembrare una sorta di controsenso, risentimento.

In linea generale, si evita di entrare in conflitto quando si sente di non potersi permettere di aprire una discussione con chi si ha davanti per motivi quali ad esempio il non sentirsi sufficientemente all’altezza, il timore della reazione altrui con le conseguenze che queste potrebbero comportare o anche il non essere sicuri di riuscire ad ottenere la ragione che si vorrebbe avere.

In questo senso, evitare il conflitto può far sentire protetti e al sicuro quando si ha la convinzione che, altrimenti, discutere e litigare possa portare a conseguenze indelebili e irrimediabili quali il compromettere la relazione con l’altro o il venire puniti e sanzionati nel caso in cui si discuta con un “superiore”.

O ancora, si può ritenere che esprimere la propria opinione comporti il far sentire l’altro a disagio fino al punto da suscitare odio nei propri confronti. Il timore del conflitto, insomma, oltre al bisogno di proteggersi, porta con sé anche un altro timore ben radicato nell’essere di tutti noi: il timore di essere rifiutati o abbandonati. Affrontare l’altro contraddicendo ciò che pensa, espone al giudizio sulle proprie opinioni con il timore che l’altro, se non dovesse ritenerle valide o sensate, possa stancarsi e finanche andarsene.

La paura del rifiuto e dell’abbandono, in quanto animali profondamente sociali, fa parte di ognuno di noi, ma, a volte, può diventare totalizzante e annichilente a tal punto che la persona si ritrova più o meno consapevolmente a mettere in atto tutta una serie di comportamenti finalizzati a scongiurare la disapprovazione o il giudizio altrui, proprio per timore che questo implichi l’allontanamento.

L’altra faccia della medaglia

Se da un lato l’evitamento del conflitto dovrebbe servire a scongiurare il rifiuto altrui, dall’altro comporta anche un sacrificio che, a lungo andare, rischia di diventare estremamente faticoso da tollerare.

Il non riuscire a dire la propria opinione, infatti, rischia di far sentire la persona non autentica nei propri vissuti e non onesta con il proprio sé. Una persona che costantemente si adegua all’altro può trovare il relazionarsi con gli altri frustrante e fonte di stress emotivo che col tempo logora e opprime.

L’utilizzo persistente di questa strategia di non ingaggio e di ritirata anticipata, per quanto sul momento dia un effetto ottimale e pacifico, se reiterata in modo persistente e univoco porta ad accettare situazioni non volute, consegnando nelle mani dell’altro la propria vita, senza la possibilità di reagire, difendersi e delimitare il proprio spazio personale.

Accumulare frustrazioni di questo tipo porta con sé sofferenze interiori indicibili, poiché, con l’idea di mantenere un cosiddetto quieto vivere di superficie per assicurarsi la vicinanza e il benvolere altrui, si finisce con il sentirsi messi da parte, invasi e non rispettati nel proprio essere e nella propria unicità. Ciò che viene compromesso, insomma, è proprio la sopravvivenza del sé.

Si può così arrivare a somatizzare tutto ciò che non è stato esternato in problemi gastrointestinali, emicranee, ulcere, herpes, dolori e tensioni muscolari, che rimandano a sintomatologie di tipo ansioso, segnale di aspetti di sé che si sta evitando di guardare.

la paura del conflitto e della reazione altrui

Il ruolo della psicoterapia

Per poter comprendere veramente le motivazioni sottostanti la messa in atto di un tale meccanismo di evitamento, occorrerebbe intraprendere un percorso di psicoterapia focalizzato sulla storia individuale del soggetto.

Come per qualsiasi altra tipologia di comportamento relazionale, infatti, i motivi risiedono in ciò che la persona ha vissuto nel corso della propria storia e in come ha visto reagire sé e gli altri ai diversi accadimenti, a partire dai primissimi legami di attaccamento.

L’esplorazione di tali vissuti, finalizzata all’individuazione e alla messa in discussione delle cause profonde della paura di scontrarsi con l’altro, è possibile all’interno di un percorso con un professionista del campo, che permette di adottare uno sguardo curioso e non giudicante su quanto accaduto nel corso della propria vita, per poter aumentare la consapevolezza relativa alle modalità di reazione a eventi e stati emotivi legati al conflitto.

Per quanto la messa in discussione di modalità che paiono automatiche e immutabili possa essere un percorso lungo e a tratti faticoso, permette, alla fine dello stesso, di sviluppare una maggiore serenità e spontaneità nello stare con gli altri, esprimendo anche le proprie opinioni con modalità adeguate, anche quando questo comporta l’espressione di un conflitto.

La capacità di reagire a ciò che si reputa ingiusto, riuscendo a difendere i propri diritti e spazi di pensiero e azione è un punto fermo di benessere e salute mentale, che si affianca alla capacità di saper chiedere aiuto e permettersi di accettarlo.

Bibliografia

Gamberini, A., & Osti, M. (2010). L’aggressività e la gestione del conflitto. L’aggressività e la gestione del conflitto, 1000-1006.

Novara, D. (2015). Litigare fa bene. Bur.

Autore

Articolo scritto e curato dalla dott.ssa Ilaria Loi psicologa e psicoterapeuta presso il centro di psicologia di Legnano

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