Introduzione

Con il termine “diagnosi differenziale” si intende un percorso che, in presenza di sintomi comuni o simili, permette per esclusione di giungere ad una diagnosi. Utilizzando un termine filosofico possiamo dire che la diagnosi segue un metodo induttivo, o, almeno, è stato così per molto tempo.

Come ben sintetizza Quintaliani in un articolo sulla metodologia clinica, il procedimento induttivo si articola in questi cinque punti:

  1. osservazione sistemica e catalogazione dei fatti che costituiscono l’oggetto di studio o di indagine;
  2. formulazione di un’ipotesi interpretativa;
  3. deduzione delle conseguenze dell’ipotesi;
  4. verifica della concordanza delle conseguenze dell’ipotesi;
  5. accoglimento o rigetto dell’ipotesi.

[…]”E non regge poiché non è vero che la medicina si risolva in osservazioni che andrebbero a riempire la tabula rasa di cui parla Bacone. Non è vero che il clinico inizia le sue indagini con delle osservazioni pure. Il clinico va sempre ad osservare con un fascio di teorie, conoscenze e congetture nella sua testa che non è quindi una tabula rasa ma una tabula plena. Plena di che cosa? Della memoria medica in cui si intrecciano teorie fisiche, chimiche, biologiche, e le loro applicazioni nella soluzione di quei problemi che sono le malattie; una memoria carica di casi, e per i quali certe “osservazioni” sono sintomi e segni in funzione di determinate teorie escogitate e provate per risolvere problemi precisi”.

Nasce quindi il metodo ipotetico-deduttivo che passa attraverso queste fasi:

  1. formulazione di una teoria esplicativa del disturbo del paziente sulla base del sapere di sfondo;
  2.  prova della teoria diagnostica sui fenomeni da osservare;
  3. accettazione o rigetto della teoria.

Se in medicina la diagnosi rappresenta la sfida più importante per il medico, in Psichiatria essa rappresenta una difficoltà ancora maggiore, non solo perché non esistono strumenti diagnostici oggettivi ma anche perché lo psichiatra “interpreta” la malattia attraverso unicamente il racconto del paziente. Se chiediamo ad un paziente di descriverci un dolore, questi non avrà grandi possibilità di “spazio” nel descriverlo: urente, pungente, come un coltello,  continuo. Potrà enfatizzare o minimizzare ma alla fine ci sarà una terminologia che aiuterà il medico a capire. Questo in psichiatria raramente avviene.

Prendiamo come esempio il paziente che dice di essere “depresso”: dietro questo termine c’è un mondo ed una variabilità che oscilla da una “depressione fisiologica” ad un disturbo Depressivo maggiore. La sperimentazione soggettiva del paziente di quello stato psichico renderà il suo racconto di coloriture e sfumature che potranno portare fuori strada rispetto ad una diagnosi corretta (e forse questo è uno dei motivi delle abnormi prescrizioni di antidepressivi e ansiolitici). A dare una mano agli psichiatri ci sono i manuali diagnostici, come il DSM-V, che forniscono un “lessico” comune: tuttavia hanno il limite di fornire un elenco di sintomi, cioè pongono l’attenzione più su una diagnostica categoriale che dimensionale.

Per lo psichiatra, dunque, non rimane che l’ascolto, attento e puntuale, nella consapevolezza che sarà il paziente stesso a condurre alla diagnosi. Tuttavia le cose si complicano ulteriormente quando la diagnosi differenziale non riguarda solo patologie psichiatriche (es. psicosi versus Disturbo Bipolare versus Disturbo Schizoaffettivo) ma anche quelle organiche. E di questo ci occuperemo.

Un Caso Clinico

Vengo contattata telefonicamente dalla figlia di un uomo di 56 anni per valutazione psichiatrica. 

L’anamnesi familiare non rilevava precedenti per deterioramento cognitivo o disturbi psichici. Il padre era deceduto all’età di 61 anni per leucemia e la madre a 82 anni “di vecchiaia”. Ultimo genito di quattro fratelli maschi, uno dei quali affetto da tumore. 

Anamnesi personale: Diploma triennale di perito elettronico, aveva lavorato come pubblicitario in un’azienda per circa 20 anni. Cinque anni prima, in seguito al fallimento della azienda, rimane disoccupato. La difficoltà a trovare un nuovo impiego e il desiderio di assicurare un futuro ai figli, lo spinge a rilevare una piccola attività commerciale (bar), che però fallisce. Trova poi lavoro come OSS in una RSA, lavoro che svolge al momento del colloquio. 

Sposato da 37 anni, ha tre figli in buone condizioni di salute.

Anamnesi patologica: Intervento chirurgico circa 10 anni prima per necrosi dell’anca. Ex fumatore (da 16 anni non fuma più); beve 2 bicchieri di vino a pasto e saltuario uso di superalcolici dopo cena. 

Affetto da artrite reumatoide, trattato con cicli di cortisone.

Anamnesi psicopatologica: In anamnesi non si evincono disturbi di tipo psichiatrico. Emergono eventi stressanti importanti: la morte del padre, la morte della madre che non vedeva da mesi in seguito ad una furiosa litigata (2018), la perdita del lavoro e il fallimento del bar, l’attuale lavoro che il paziente riferisce come “avvilente”.

Colloquio clinico: Al colloquio si presenta con la figlia, che integra quanto riferito dal padre. La signora mi racconta che nell’ultimo anno il padre presenta deficit di memoria a breve termine, motivo per cui era stato valutato presso il Centro Alzheimer che aveva dato esito negativo per la patologia degenerativa cerebrale. Visto dal neurologo, non emergevano sintomi di tipo focale, veniva confermato il lieve deficit mensico e veniva esclusa patologia di tipo neurologico.  RMN cerebrale effettuata 6 mesi prima negativa. Esami ematochimici sostanzialmente nella norma. Era stato valutato anche da uno psichiatra che aveva posto diagnosi di Depressione e impostato terapia antidepressiva con Escitalopram che il paziente aveva interrotto autonomamente da più di un mese.

La figlia riferiva che da 5 anni, dopo la perdita del lavoro e fallimento dell’attività commerciale il padre era diventato monotematico su certi specifici argomenti (la chiusura dell’attività, il disprezzo per il genere femminile), appariva irritabile, a volte aggressivo verbalmente soprattutto verso la moglie con agiti aggressivi (pugni sul tavolo, spintoni) alternando questi momenti ad altri di tranquillità e serenità. Il paziente riferiva tono dell’umore depresso, apatia, difficoltà ad attendere alle normali attività quotidiane.

Era presente iperfagia senza modificazioni sostanziali delle abitudini o dei gusti alimentari. Inoltre, il peggioramento dell’irrequietezza e dell’irritabilità, avevano causato episodi di tensione sia con i pazienti, sia coi familiari sia con i colleghi della RSA, tanto che aveva ricevuto due lettere di richiamo dall’Amministrazione con conseguente rischio di licenziamento.

All’esame obiettivo psichiatrico il paziente si presentava poco curato nell’aspetto e nell’igiene personale. Appariva lucido, orientato nei parametri spazio-temporali, sul sé e sul parametro d’oggetto. Emergeva un lieve deficit mensico a breve termine. L’eloquio era spontaneo, fluido, solo parzialmente informativo. I nessi associativi apparivano ben mantenuti. Si evidenziava una ideazione prevalenti su tematiche svalutative (“non conto più nulla”, “non mi ascoltano”), rimuginazioni riguardanti l’attività fallita  e le donne. L’umore appariva deflesso, l’emotività a tratti labile. Negava gli agiti aggressivi e minimizzava, pur riconoscendoli, i cambiamenti del carattere che attribuiva agli eventi di vita. 

Il correlato sintomatologico apparentemente poteva far propendere per un episodio depressivo atipico e il deficit mnesico poteva essere secondario ad un deficit attentivo, proprio delle sindromi depressive. Anche la mancanza di correlati organici e testali faceva propendere per una diagnosi di disturbo dell’umore. Veniva reimpostata terapia con antidepressivo e aggiunta Quetiapina, un neurolettico utilizzato spesso negli stati di agitazione psicomotoria anche di differente eziologia. Le valutazioni successive erano state effettuate a distanza di tempo, sia per l’indisponibilità del paziente che per l’avvento del Covid. Si era reso necessario comunque aumentare nel tempo il dosaggio di Quetiapina fino a 150 mg/die per il crescente stato di aggressività del paziente.

Le telefonate della figlia erano sempre più frequenti ed accorate, chiedeva spesso come dovevano comportarsi quando il papà era agitato, temeva di non essere più in grado di gestire le sue sfuriate e temeva per l’incolumità della madre. Nel frattempo, il paziente aveva subito il lutto della morte del fratello e tale evento aveva peggiorato il quadro sintomatologico.

Era stata di nuovo consigliata l’esecuzione di  una RMN cerebrale, sovrapponibile alla precedente. Tuttavia, nell’arco di pochi mesi il quadro clinico era nel complesso peggiorato sia per quanto riguardava l’umore che le anomalie comportamentali, tanto che il paziente aveva perso il lavoro. L’accentuazione delle modificazioni caratteriali ha fatto la differenza: la frase pronunciata della figlia “questo non è più il mio papà” aveva reso necessario una rivalutazione diagnostica e, quindi, un intervento differente. Nonostante le resistenze sia del neurologo che del medico di base, veniva contattato nuovamente il Centro Alzheimer per rivalutazione testale e veniva richiesta una PET cerebrale. I risultati di quest’ultima confermavano una piccolissima lesione, non rilevabile alla RMN, probabilmente di tipo vascolare, sottocorticale frontale, confermando la diagnosi di demenza in fase iniziale.

Conclusioni

L’importanza di una corretta diagnosi differenziale non si esaurisce solo ed esclusivamente su un piano clinico. Certamente il paziente ne ha beneficiato nel senso di una presa in carico specializzata, ha cominciato una terapia occupazionale/riabilitativa per il mantenimento delle funzioni, ha integrato la terapia psichiatrica con quella medica. Tuttavia, il giusto inquadramento diagnostico ha permesso altro.

Da un punto di vista legale, il licenziamento non era valido ed il paziente ha potuto godere di una serie di tutele e sovvenzioni che gli hanno fornito vantaggi anche dal punto di vista economico. Ma quello che più conta è stato il cambiamento del clima familiare: la moglie ha imparato a tollerare in modo diverso le intemperanze del marito, riconoscendole come sintomi e favorendo una maggiore tranquillità nel coniuge. La figlia, dal canto suo, ha “ritrovato” suo padre nella malattia, ha imparato a gestire le sue emozioni e quelle del papà. Certo, la strada che questa famiglia deve percorrere è lunga e difficile, ma ora sono in grado di lavorare insieme partendo da un punto fermo. E non è poco. 

Più accurata sarà la diagnosi, più mirato sarà il trattamento terapeutico. E’ quindi necessario avere dunque anche una buona dose di “coraggio” nel fare diagnosi, anche se questo può significare discostarsi dalla diagnosi già fatta da altri colleghi.

Articolo Scritto dalla dott.ssa Gaia Guggeri  Medico Psichiatra

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